Un destino ridicolo. Tre vite, due storie intrecciate, un unico intramontabile menestrello
di Pietro Maria Torregrossa – IV I
Sapete, da sempre non ho mai avuto un buon rapporto con i romanzi scritti da più autori: non ho mai sopportato che accanto al titolo fossero scritti i nomi di due persone. Tuttavia, quando sulla copertina di un romanzo dal titolo “Un destino ridicolo” lessi Fabrizio De André, non potei fare a meno di cominciare a provare una punta di curiosità per quelle pagine scritte dal cantautore italiano con la collaborazione di Alessandro Gennari. Inizialmente pensai che un cantante del suo calibro non sarebbe riuscito ad essere grande e geniale al contempo come nelle sue canzoni, e che il sodalizio con un uomo che non conoscevo avesse deturpato profondamente lo stile armonioso, quasi poetico, con cui De André riesce a descrivere, con minuziosa delicatezza, storie di emarginazioni, di tempestosi amori, di violente esistenze e di antichi pensieri.
Devo ammettere che la trama di questo “Destino ridicolo” era davvero tipica del De André, così decisi di fiondarmi tra quelle righe che cominciavano proprio con le parole del menestrello genovese:
“A un luminoso bagnasciuga della Gallura
dalle cui acque tranquille
una vacca torse il collo a guardarci
con un dentice in bocca.”
Anche a me sembrarono versi senza senso, soprattutto dopo aver letto la breve descrizione del romanzo che trovavo sul retro della copertina. Venivano delineati i contorni di una storia che mi affascinò non poco perché mi sembravano uscire proprio dai testi di quelle celebri canzoni:
“Un intellettuale marsigliese passato dalla Resistenza alla malavita, un pappone sognatore e indolente e un pastore sardo sfuggito ad una pesante condanna organizzano il furto di un carico di pelli preziose. Tre uomini lontanissimi che il destino unisce a Genova per il colpo della vita. Due donne, una timida prostituta e un’affascinante istriana, attraversano indenni e silenti lo spettacolo del disastro. Ma saranno Fabrizio ed Alessandro, figure all’inizio marginali, a rintracciare e riannodare i fili delle avventure degli altri, in un romanzo che ribalta ogni certezza, al di là delle casualità, seguendo la strada della sorte”.
Giuro che queste parole mi rapirono il cuore. Sembrava proprio che le mie certezze sui libri con due autori dovessero cambiare. Mi veniva proposto qualcosa che da tempo non leggevo, un libro dove ogni fatto non era semplicemente una sequenza di azioni, ma una danza ricca di arabeschi e sulfuree essenze; forse era l’aria della Genova dove la storia si svolgeva, forse il fatto che De André fosse uno dei miei miti, ma come giustificare questi singolari e complessi personaggi che non diventano degli utopici stereotipi di realtà ormai lontane?
Ognuno di loro da Carlo, il pappone, a Salvatore, il pastore sardo, era fortemente segnato da una vitalità che li faceva diventare persone che potremmo incontrare ogni giorno nella città ligure, persone che, come succede nella realtà, percorrono una vita densa di emozioni che sconvolgono per sempre la solita routine. I fatti si articolano con semplicità attorno alla storia ma, al contempo, sono carichi della voluminosa presenza dei tre personaggi principali che a loro volta sono influenzati dal destino, un destino che proprio il titolo definisce ridicolo, poiché ribalta ogni certezza e riesce a stupire e a rendere inermi sotto i colpi di questo anarchico fato.
Un’analisi profonda della vita vede tutti impegnati, forti tumulti interiori perseguitano le vicende ma poi con aria quasi mistica e, al contempo, così palpabile, entra Fabrizio, ed è la nostalgia a ritornare. La nostalgia per un uomo che per quanto dica poco, rimane il fulcro attorno a cui gira tutto il mondo. Lui e Genova diventano i silenziosi spettatori dei loro stessi burattini.
Così nasce l’amore per questo romanzo che richiama arcani valori e sapori che fanno ancora oggi rivivere la leggenda del Faber.
«A cosa serve tutto questo? – gli chiesi. – Vivere, soffrire e tutto il resto…»
«A niente, – rispose. – Non a niente in assoluto ma a niente per quanto ci riguarda come individui che comprendono solo ciò che posso distruggere. E in questa infinita gratuità intravedo quello che ho sempre cercato nell’anarchia: una libertà assoluta, incomprensibile ed estranea alle nostre spiegazioni, qualcosa che mi viene spontaneo chiamare Dio»